
La mostra rappresenta una sorta di taccuino di viaggio visuale che raccoglie una selezione di scatti fotografici del prof. Ferdinando Zanzottera (Politecnico di Milano) realizzati tra il 2010 e il 2013 negli ex ospedali psichiatrici del nord-est italiano. Si tratta di un’estrema selezione di un più vasto lavoro realizzato per una ricerca ministeriale interuniversitaria che ha spinto l’autore a peregrinare in quattro regioni (Lombardia, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia e Veneto) per documentare lo stato di fatto di un nutrito numero di ex manicomi e che ha portato all’esecuzione di una campagna fotografica di oltre 9.000 scatti. Soggetti preferenziali non sono solo le architetture, con la registrazione dei degradi che talora interessano pesantemente alcune di queste strutture o i Beni Culturali che talvolta sono conservati negli ex manicomi italiani, ma sono i silenzi di cui questi luoghi sono pregni. Le immagini poste in mostra raffigurano, dunque, le impronte delle mani lasciate dai pazienti sui vetri delle camere di sicurezza, le scritte abbandonate da persone ignote sui muri di questi ospedali per la mente, gli intonaci caduti da edifici più o meno fatiscenti, i cartelli che registrano situazioni che talvolta sembrano grottesche, gli oggetti dimenticati dai pazienti e gli utensili abbandonati di corsa dagli operatori e dagli “ospiti” costretti a lasciare in poche settimane i luoghi in cui lavoravano e vivevano da anni. Semplici elementi di uso quotidiano utilizzati da mani alle quali spesso la normalità della quotidianità, così come la si intende abitualmente, non fu mai concessa.
Riflessioni e testimonianze dei pazienti

Gli oggetti rinvenuti nei differenti ex ospedali psichiatrici hanno risvegliato nell’autore delle immagini un turbinio di pensieri che hanno richiamato nella sua mente gli scritti lasciati da molti ‘pazienti’ che tra queste mura hanno abitato per decenni. “Risiedo in questo lager come una foglia sbattuta dal vento e calpestata dagli uomini” scriveva una donna quando era ancora “rinchiusa” nella Grande Astanteria Manicomiale di Affori (Milano). Calpestando quelle stesse foglie e camminando sui pavimenti sui quali alcuni ‘pazienti’ hanno vissuto per decenni, l’autore delle fotografie ha provato a chiudersi alle spalle le porte delle piccole celle di contenimento dei ‘furiosi’, che un tempo ospitavano legati al letto i malati più violenti, e in lui sono riaffiorate le parole pronunciate da alcuni di loro, che la scienza medica ha catalogato secondo la patologia della loro reale o presunta malattia: “dissociazione traumatica con accentuazione dell’insicurezza ontologica comune”; “soggetto con disturbo delirante cronico e sindrome di de Clerambault”; “refrattaria al senso comune della decenza e all’autorità del marito”. Patologie che con il proseguo della ricerca sono divenute semplicemente Marco, Guglielmo Maria e Adelina, persone incontrate lungo il suo pellegrinare o ‘conosciute’, leggendo le loro ‘antiche’ cartelle cliniche.
Storie di maltrattamenti e di amore per i più deboli

Non sempre gli ex ospedali psichiatrici parlano di maltrattamenti o di diagnosi ‘bislacche’ che oggi farebbero sorridere se non fossero così drammaticamente vere. Maria è stata rinchiusa in un manicomio per quasi la sua intera esistenza perché ha tirato uno zoccolo di legno in testa al marito che la tradiva con un’altra donna: questo è bastato per farla interdire poiché metteva in discussione il sistema sociale in cui viveva, non volendo più accettare i comportamenti libertini del marito. Oltre che di abusi e maltrattamenti, questi luoghi parlano di amore per i più deboli e raccontano di gesti commoventi compiuti da medici, infermieri e operatori sanitari, che ancora oggi, concluso il lavoro ed andati in pensione da anni, chiamano “fratelli” le persone più sfortunate che hanno curato. “Chi direbbe che in piena Milano ci sia il lager dei vivi? Questo lager dei vivi è il Paolo Pini. Io ci sono dentro da dieci anni e mi sono accorto che le persone sono importantissime per la vita. Ci sono tra loro principi, diavoli, reginette, principesse e sono tutte persone importantissime, sono i principali vivi della terra. Questo non solo tra i ricoverati, ma anche tra gli inservienti, assistenti, infermieri e dottori. Nella zona di Milano io ho visitato altri lager: erano piene di persone sacre, come al Paolo Pini, di alberi sacri, di fiori sacri… ma erano tutti lagerizzati”. Così si esprimeva nel 1996 Alberto, un paziente dell’ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini, edificato a partire dal 1925 nel capoluogo lombardo.
L’immediatezza delle immagini e le storie dimenticate

Sono parole semplici che talvolta all’autore e curatore della mostra è sembrato di udire aggirandosi nei sotterranei e negli ambienti più intimi degli ospedali psichiatrici visitati. Parole invece fisicamente pronunciate da chi ha vissuto per molti anni rinchiuso tra le mura di un manicomio, che sintetizzano diffuse convinzioni su un tipo di vita ormai non più permesso e su luoghi interpretati come ambienti di segregazione e non di cura. Le fotografie qui esposte sono immagini semplici, forse anche disarmanti per la loro elementarità, che si mostrano senza troppo clamore, anche se nel loro silenzio cercano di urlare le storie di chi tra quelle mura ha vissuto e, talvolta, è stato dimenticato. All’autore piace definire queste fotografie ‘gentili’, senza orpelli didascalici, raccolte in una mostra che cerca di raccontare anche una parte della storia italiana recente iniziata il 13 maggio 1978 con la promulgazione della Legge n. 180, nota come Legge Basaglia, che si è conclusa, per molti ospiti, solo una decina di anni fa.
Il silenzio e l’oblio degli ospedali psichiatrici

Tra le immagini inserite in mostra l’autore ha deciso di escludere gli scatti che raffigurano i pazienti che ancora frequentano questi luoghi e i nuovi ‘amici’ (così li chiama lui) che ha incontrato nei suoi viaggi in queste cittadelle della solitudine. Nelle fotografie raccolte, dunque, ‘solo’ architetture, oggetti dimenticati e abbandonati o manufatti reinventati ad uso non sempre idoneo. Non vi sono nemmeno immagini di oggetti musealizzati, sebbene molti sarebbero meritevoli di essere conservati in un museo, perché non si reiteri la censura questa parte della storia della società del XIX e XX secolo. Tra le immagini presentate vi sono anche quelle che in bianco e nero fissano nei sali d’argento semplici etichette con i nomi degli ospiti che per ultimi hanno abitato in questi spazi, che spesso furono luoghi di desolazione. Queste fotografie, infatti, senza proferire parole, ‘raccontano’ di pazienti rinchiusi in Ospedali Psichiatrici che per molti anni disattesero la legge di superamento dei manicomi, sino a quando, per non ricevere una severa multa, le istituzioni dovettero trasferire i pazienti in soli trenta giorni. Il provvedimento colse così ‘impreparati’ alcuni operatori che si videro ‘costretti’ a realizzare nuovi e moderni luoghi di cura dove trasferire i loro ospiti in pochi giorni.
Il degrado e la dimenticanza di luoghi storici

A seguito dei decreti attuativi che segnarono la reale chiusura degli ex ospedali psichiatrici, donne e uomini furono ‘invitati’ a fare i bagagli in fretta e nei locali, dove prima si viveva una vivace quotidianità, è sceso il silenzio e l’oblio. Quando l’autore degli scatti è entrato nelle loro stanze ha avuto la sensazione che il tempo si fosse dimenticato di scorrere e tutto gli è apparso esattamente come fu lasciato in quell’istante. La polvere è divenuta la padrona dei poster di montagna appesi alle pareti da pazienti convinti di essere novelli Messner, mentre gli acari, unici nuovi abitanti di un mondo rimasto immobile, si sono stratificati sugli oggetti dimenticati. Non più un suono. Non più le impronte lasciate da mani stanche o tremanti, ma solo silenzio, e le fotografie scattate in questo ‘mondo surreale’.